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Come nasce una ONLUS

Perché sono crudele con gli studenti africani?

onlusLa mia esperienza nell'aiuto allo sviluppo dei Paesi svantaggiati è molto ridotta ma anche specifica.

Io insegno da decenni teologia morale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università S. Tommaso di Roma (Angelicum) dove studiano studenti e studentesse provenienti da quasi 100 Paesi. Ma è solo dal 1994 che il problema dell’aiuto concreto mi si è posto personalmente.

Essendo io da sempre interessato ai problemi sociali, in una situazione di crisi istituzionale, fui nominato preside della Facoltà di Scienze Sociali con il compito di rilanciarla.

In questa Facoltà vi erano allora molti studenti e studentesse africane ed io mi trovai ad affrontare, tra molti altri, anche il problema di come aiutarli a sopravvivere durante gli studi.

I ragazzi facevano di tutto: badanti, sorveglianti di mostre, raccoglitori stagionali di frutta. Quello che mi colpì maggiormente fu il loro sradicamento dalla cultura di provenienza e il non inserimento nella nostra. Sentii una profonda compassione (“soffrire con”, letteralmente) per la loro situazione e nel contempo mi posi, insieme al altri colleghi, il problema di come aiutarli realisticamente. Come Facoltà non potevo fare molto sia per motivi istituzionali che economici. Cominciai allora ad insegnare in una Università che mi pagava - dalla mia Università (essendo io religioso) non ricevo uno stipendio – ed a distribuire lo stipendio a pioggia. Successivamente (nel 2000) si pose la necessità si regolarizzare questa situazione e fu così che fondai Adjuvantes Onlus, Fondo di solidarietà educativa – insieme a Sr. Helen Alford, un’aziendalista proveniente dalla Università di Cambridge.

Sviluppammo un programma di studi all'estero per studenti statunitensi e con i proventi potemmo finanziare delle vere borse di studio. Successivamente la Conferenza Episcopale Italiana ci concesse in gestione una decina di borse di studio fondate in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Roma e, dopo ancora, trovammo una fondazione internazionale che assegna aiuti per la formazione culturale di una Leadership cristiana nei Paesi più poveri. Affittammo anche una serie di appartamenti come residenza dei nostri borsisti.

Durante i primi anni di Adjuvantes la mia Comunità MASCI RM 8 mi ha aiutato organizzando diversi mercatini, mentre il MASCI Nazionale mi fornì involontariamente un’esperienza interessante. Il presidente di allora, Claudio Gentili, ci permise di inserire in un numero di Strade Aperte un dépliant sul nostro lavoro: 5000 copie. Chiedevamo evidentemente un contributo ed anche l’offerta di qualche lavoro, magari estivo, per i ragazzi. Ci furono due sole risposte: un’offerta di lavoro ed una lettera di improperi contro gli studenti che venivano in Italia senza mezzi.

Questo ci fece riflettere sul fatto che chiedere aiuti per formare laureati per il terzo mondo non era molto popolare ! Con tutti i bambini da adottare a distanza, questi ragazzoni e ragazzone che studiavano non suscitavano evidentemente nessuna solidarietà, nessuna ‘compassione’.

Il problema fondamentale che si poneva alla ONLUS era comunque il modo di aiutare gli studenti. Lentamente sviluppammo una nostra filosofia che dipendeva, è chiaro, dal fatto che i dirigenti di Adjuvantes sono anche docenti di una Facoltà di Scienze Sociali. Noi non possiamo aiutare seriamente qualsiasi ragazzo o ragazza che vuole scappare dall'Africa. Ci concentriamo sulla formazione di futuri leader che sapranno aiutare la loro gente sulla via dello sviluppo.

Per fare questo bisognava partire dal fatto che maggioranza dei paesi d’Africa l’educazione secondaria è un disastro (come i sistemi sanitari, d'altronde) e che quindi i ragazzi arrivano in Europa impreparati ad entrare in un corso universitario. Molti di loro non hanno mai posseduto nella loro intera carriera scolastica un libro ! Abbiamo allora istituito dei corsi preparatori per loro, nelle lingue che conoscevano, di solito inglese o francese. Abbiamo dato indicazione ai docenti di come aiutarli nei primi semestri ed introdotto corsi di metodologia per aiutarli in parallelo allo studio curricolare.

Ma il problema principale è stato quello di aiutarli a crescere interiormente, ad appropriarsi della loro missione futura, della necessità di abbandonare la mentalità di arrangiarsi in qualsiasi modo per emergere (compreso la copiatura e lo sfruttamento della pietà dei docenti). Tutto questo però abbiamo cercato di farlo senza offenderli, senza opprimerli, senza ferirli. Non sempre ci siamo riusciti: siamo stati qualche volta anche minacciati. Abbiamo anche dovuto rifiutare il rinnovo di iscrizione o bloccare – con opportuni regolamenti – il loro accesso ai gradi superiori dell’offerta formativa universitaria.

Non è stato facile e ancora stiamo combattendo questa battaglia. Una battagli che è innanzitutto con noi stessi, per reprimere il nostro egoismo, per saper discernere cosa si può imporre a questi ragazzi e cosa invece del loro bagaglio ‘ancestrale’ bisogna sviluppare.

Anche noi abbiamo imparato molto. Ad esempio il piacere di stare insieme, di festeggiare che gli africani hanno o l’attaccamento alle loro tradizioni tribali. Ricordo con piacere i racconti che mi faceva Severino: come andava con suo padre e gli zii a caccia nella savana per diversi giorni e notti. Severino era congolese, figlio di un maestro elementare, ed è morto di AIDS dopo che era stato infettato molto probabilmente da una trasfusione di sangue a Kinshasa resasi necessaria in seguito ad un incidente d’auto. Di lui ricordo gli occhi tristi e il suo impegno nello studio: presentava le esercitazioni scritte in un francese corretto e in lettere che sembravano stampate.

Ma gli africani che frequentano la Facoltà non solo gli unici studenti, abbiamo sudamericani, asiatici ed soprattutto studenti dai paesi europei ex comunisti e da alcune repubbliche ex sovietiche. Questi ultimi hanno una buona preparazione scolastica e spesso anche universitaria, perché vengono aiutati solo per studi di specializzazione. Sono molto utili agli africani come termine di confronto ed anche come modelli. Ricordo con commozione alcune ragazze che aiutavano ‘maternamente’ durante un’esercitazione un nigeriano che di economia politica sapeva proprio poco e se ne vergognava !

In conclusione direi che la mia esperienza (che ora è la “nostra” di un piccolo gruppo di docenti) mi ha portato ad essere impegnato e severo ( crudele ?) con questi ragazzi. Impegnato nell'aiutarli a superare lo shock dei primi tempi di arrivo e dei primi semestri di studio, ma successivamente di proporre loro seriamente modelli accademici ‘occidentali’. Come la puntualità, l’impegno nello studio, il rispetto della metodologia scientifica. All'inizio ricordo che sotto esami le mamme, e i parenti prossimi in genere, “morivano” così spesso, e non consentivano agli studenti di rispettare le scadenze !

Restano molti problemi, e come potrebbe essere diversamente ?

Il primo è quello del ritorno nel Paese d’origine una volta terminati gli studi. Per questo finanziamo (o meglio facciamo finanziare) solo studenti che vengono presentati da organizzazioni locali (come le diocesi) che si impegnano a dare loro un posto di lavoro. Perché il non ritorno è causato

qualche volta anche dall'impossibilità di trovare nel Paese d’origine un posto di lavoro proporzionato alla specializzazione culturale acquisita in Europa.

Il secondo è la corruzione ed il clientelismo che esiste nei loro Paesi a tutti i livelli. Noi italiani non abbiamo una buona fama internazionale, ma non c’è paragone con la situazione dell’Africa subsahariana ! Chi ha lavorato laggiù lo sa bene. I ragazzi africani lo sanno e ci chiedono spesso cosa possono fare per contrastarla. La nostra risposta a tutta prima è evidentemente quella di non entrare, mai, in questi giochi.

Il terzo punctum dolens è la loro mentalità diffusa che tutti i loro problemi nazionali sono stati causati dal colonialismo. E che quindi i paesi sviluppati devono aiutarli. Non è qui il luogo per chiarire questo punto: dirò che molti dei loro problemi non dipendono dal colonialismo, bensì anche dalla loro storia pregressa, dall'inurbamento, dalla globalizzazione, ecc. Ne segue che i futuri leader devono acquisire una mentalità imprenditoriale, d’iniziativa, di responsabilizzazione individuale e collettiva.

A proposito di questo ultimo punto. Il nostro sviluppo occidentale, spesso solo economico, inquinante, predatorio, disumano insomma, non può essere una meta auspicabile per i paesi che vogliono emergere, emergere dalla mortalità infantile, dalle malattie endemiche, dall'ignoranza ecc. Purtroppo la Cina (attualmente attivissima in Africa) ha imboccata la nostra strada ! Forse le future generazioni africane – aiutate dal nostro senso critico e dal riconoscimento delle nostre colpe – non faranno i nostri stessi errori. Almeno non tutti.

Vorrei concludere confessando il mio metodo puntuale per superare le difficoltà di questo lavoro (che devo svolgere accanto a quello accademico). Mi basta guardare una fotografia di un bambino africano sorridente per essere rincuorato e per credere che quello che stiamo facendo ora in Italia aumenterà prossimamente il numero di questi bambini felici.

Non siete d’accordo anche voi che i bimbi africani sono i più belli del mondo ?

Francesco Compagnoni OP